CGIL: i diritti delle donne nel nostro Paese
Non basta mettere un mazzo di mimose in mano ad uno dei Bronzi di Riace, immagine che pubblicizzava l’iniziativa che consentiva solo alle donne l’entrata gratis nei musei il 6 e 7 marzo, per far dimenticare che questo è il Governo in carica che di più, nella storia repubblicana ha aggredito i diritti, il ruolo, e la dignità delle donne.
I comportamenti singoli, quali l’avallare l’idea che una donna abbia una funzione “estetica” nella società, una filigrana nelle rappresentazioni del potere, o peggio utilizzarla come valore di scambio tra favore e interessi, non è più grave dei comportamenti collettivi, quelli che si tramutano in atti politici, fatti anche da donne, e che hanno una dirompenza devastante nello smantellare un panorama di tutele avanzato e sostanzialmente reso inesigibile.
Dal libro bianco sul welfare, alle manovre sull’istruzione, al Piano per l’occupazione femminile, al quoziente familiare, persino il pacchetto anticrisi e l’innalzamento dell’età pensionabile hanno in loro una duplice filosofia: da un lato una concezione imperante nel centrodestra, familista, che poggia le proprie basi sulla divisione del lavoro e sulla presa d’atto che la partecipazione femminile al mercato del lavoro è un fattore indispensabile per garantire la sostenibilità economica delle famiglie e del nostro sistema economico.
Per cui si trovano formule quali i diritti sociali minimi, l’estensione del part-time o il lavoro accessorio, la riduzione del tempo scuola, per contenere i costi del sistema sociale pubblico scaricandone il peso sul lavoro delle donne e si propagandano queste stesse misure come interventi per la promozione delle pari opportunità!
Se si riducono le misure a favore della non autosufficienza, se si prevede un orario ridotto di studio ai figli, come si può conciliare vita e lavoro? Semplice, sacrificando i diritti della donna lavoratrice che, assumendo l’obbligo sociale della cura familiare verso i bambini e gli anzian, in questa nuova distribuzione delle responsabilità in cui al sistema pubblico si sostituisce la responsabilità individuale, troverebbe nella flessibilità spinta un opportunità.
La conciliazione è fatta, indubbiamente, di più servizi e di adeguamento degli stessi e dei tempi alle necessità derivanti dalle attività lavorative, ma anche di politiche organiche che consentano che la maternità non si tramuti in un evento che interdice la permanenza al lavoro, occupandosi di attività che accompagnino il rientro della lavoratrice madre con aggiornamento e formazione, che non ne impedisca la stabilizzazione, o la crescita professionale, ma pari opportunità deve e può voler dire anche una qualità della vita e delle policy territoriali migliori, con veri e propri interventi che guardino ai contesti urbani, all’organizzazione dei sistemi di servizi educativi, sociali, sanitari, culturali, che tengano in considerazione gli aspetti di genere. Allora viene da chiedersi perché cancellare la legge 188, contro le dimissioni in bianco, perché mettere in discussione ciclicamente la legge 194, perché non rifinanziare la legge 215, minare la legge 53, rendere sostanzialmente congelata la legge 328, dismettere l’impegno, non solo finanziario verso l’infanzia e il piano nidi?
Si finanzia un Piano Nazionale con 40 milioni di euro per iniziativa che nel migliore dei casi sono duplicazioni di provvedimenti già esistenti, quando invece non rappresentano una mina al sistema dei servizi pubblici, senza alcuna prospettiva quadro che affronti con gli strumenti adeguati, molti dei quali già esistenti i problemi esistenti.
Per fare ciò la CGIL ribadisce la necessità di un progetto per il Paese, che ridisegni non solo una missione produttiva dei territori e dei settori, ma che ricostruisca sul terreno della coesione sociale un profilo socioeconomico di sostenibilità che valorizzi il lavoro e la funzione sociale delle donne nella società. Fare questo vuol dire prima di tutto investire risorse contro la crisi e nel welfare.
I dati ci dicono che le donne la crisi la pagano più e peggio degli uomini, perché occupate in prevalenza in settori spesso non coperti da ammortizzatori, ed hanno in ogni caso retribuzioni più basse. I livelli di istruzione sono più alti, così come l’aspettativa professionale, ma il tasso di occupazione femminile rimane al di sotto della media europea e degli obiettivi di Lisbona attestandosi al 30.8% al sud, al 55,6% al nord ovest ed al 56.9% al nordest, aumenta al contempo il tasso di inoccupazione ed il tasso di inattività, si perde quindi persino la speranza. I differenziali retributivi si attestano intorno al 17%, ma la forbice varia a seconda dei settori presi in esame (diminuiscono nel pubblico aumentano nel privato), nella scala di valutazione del “gender gap” l’Italia passa dal 67esimo al 72esimo posto (partecipazione alla vita economica e politica, istruzione, salute).
Inoltre la maggiore presenza delle donne nel mercato del lavoro è dovuta all’aumento delle lavoratrici straniere (in particolare badanti) e al maggiore incremento del lavoro a tempo parziale, con tutto ciò che queste due condizioni rappresentano in termini di esposizione ai rischi sociali.
Inoltre la sostituzione del mancato intervento pubblico sul fronte dell’assistenza e della cura da parte delle politiche nazionali, sostituito in via privatistica dal lavoro delle lavoratrici migranti ha spesso permesso alle donne e ad i soggetti più istruiti di permanere nel mercato del lavoro, come lo stesso documento sottolinea.
Esistono forti contraddizioni tra le azioni e le politiche che il Governo ha messo in campo e le argomentazioni che vengono addotte a supporto di questo Piano Nazionale per l’inclusione delle donne nel mercato del lavoro.
Se si rileva il dato positivo del contributo apportato dalle lavoratrici migranti andrebbe ad esempio sospesa la legge Bossi-Fini che ne limita l’espansione e aumenta i fattori di discriminazione, così come se il ricorso al part-time supera le soglie monitorate gli studi di settore e diventa la modalità quasi unica di contrattualizzazione, piuttosto che aumentare le deroghe e deregolamentare ulteriormente le forme di lavoro a tempo parziale a discapito della lavoratrice, occorrerebbero norme più stringenti ed investimenti nei controlli ispettivi affinché il ricorso al part-time sia utilizzato, così come le attuali norme prevedono, su base volontaria e reversibile. Un lavoro part-time per tutta la vita lavorativa non solo produce un reddito debole, ma anche una pensione più bassa ed un’esposizione al rischio povertà maggiore.
Proprio la povertà è il grande capitolo che non si affronta, continuiamo ad essere un Paese che non ha nessuna forma di contrasto alla povertà, dopo l’interruzione della sperimentazione del reddito minimo di inserimento. Ma occuparsi di donne vuol dire soprattutto intervenire su questo capitolo: in Italia sono più di 4 milioni le donne che si trovano in condizione di povertà relativa e circa 1,5 milioni quelle in povertà assoluta.
I carichi familiari inoltre dimostrano che per tempo e attività le donne italiane sono molto più esposte.
Ma le donne oltre che lavorare, prendersi cura della famiglia, sono persone, soggetti portatori di diritti soggettivi, anch’essi declinati verso il basso in termini di affermazione e di libertà.
Penso al diritto alla maternità consapevole e a cosa sta accadendo sulla sperimentazione della RU486, penso alla libertà di scelta ed autodeterminazione, alla democrazia paritaria, alla partecipazione delle donne al governo dei processi economico e sociali e alle norme sulla parità nei consigli d’amministrazione, come se la democrazia paritaria fosse (solo) un problema quantitativo e non qualitativo. Conta anche quante donne vi sono ma soprattutto quanto potere hanno effettivamente di essere agenti di trasformazione e cambiamento.
E’ ora di ricostruire un pensiero condiviso, che metta in relazione analisi e proposte di intervento, ma soprattutto che renda manifesta l’esigenza di approcciare ai temi di genere ed alle politiche di parità come reali dimensioni di sviluppo e non come un “orpello etico” da propagandare attraverso interventi spot, nel tentativo di mitigare la cultura dominante regressiva di chi in questo momento ha la responsabilità di Governo del Paese.
Come donne della CGIL pensiamo che si debba ripartire dal Lavoro per riunificare generazioni, nazionalità, saperi e movimenti di donne, per rilanciare sul terreno della rappresentanza, della partecipazione una cultura differente della cittadinanza a partire dall’affermazione paritaria tra i sessi che cancelli discriminazioni, differenziali, segregazioni e separazioni.
Guardando alla piattaforma del prossimo 12 marzo giorno dello sciopero generale, alle iniziative che territori e categorie hanno già programmato durante tutto il mese di marzo, alla prossima Assemblea Nazionale delle Donne, la CGIL è e sarà in campo per riaffermare non solo i diritti civili ma soprattutto i diritti sociali delle Donne, perché dalla crisi bisogna uscire con una prospettiva che parli di un futuro migliore, basato sull’uguaglianza e sull’equità.
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